La «vuotanza» di Draghi o dell’irrisolto ovvero il vuoto della speranza svanita nel nulla

di Rino Nania

Ci si aspettava un’inversione di marcia sostanziale rispetto alle condotte governative precedenti che, purtroppo, non è arrivata

Cogliendo dal sacco, sempre fantasioso, di Umberto Contarello, compagno di avventura dell’irragiungibile Paolo Sorrentino, estraggo il termine «vuotanza», somma stupida di due parole regali: speranza e vuoto. Eccola la «vuotanza» che riflette i tempi che viviamo e che mi sussurra un punto implausibile di una storia non più frutto di un destino deliberatamente voluto dalle nostre umili responsabilità e che ci porta a dire che oggi siamo artefici di un non vissuto.

In questo quadro si avverte una fiducia tradita da un tecnocrate della portata di Mario Draghi, che più tempo passa e più ci appare come quel mimetico soggetto che è passato dalla visione solidaristica di Federico Caffè a un ancora non molto definito ruolo di Dominus senza direzione di marcia e soprattutto senza quell’inversione di marcia sostanziale che ci si aspettava rispetto alle condotte governative precedenti.

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Ed è in questo vuoto che si comincia a stagliare nel Draghi irresoluto una sorta di domatore di schiavi alla Benito Cereno, di melvilliana memoria, laddove esercita quella violenza che giunge per carenza di capacità persuasiva. Quando Bobo, il capo degli schiavi dal portamento gracile, mente strategica di eccelse qualità riesce a evidenziare le ragioni plausibili della rivolta, ebbene Cereno, oggi redivivo oltre la pagina letteraria, rimane l’unico sopravvissuto della ribellione.

E tuttavia le sue ragioni rimangono sconfitte laddove in quel «labirinto di senso» lo scontro tra oppressi, la cui ferocia si esalta nel male e nella cattiveria, ed oppressore, che rimane impigliato nel grigiore della sua apatia o della sua cecità che lo rende prudente e senza capacità risolutive. In un crescendo di tensione mai risolta tra il bene e il male, la realtà che si vive si immerge nella premonizione dell’insufficienza della giustizia terrena, ma soprattutto si caratterizza come fase premonitrice del crepuscolo dell’Idea di Stato, ove l’autorità si svuota nell’ignavia e nell’ammuina.

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Benito Cereno pare proprio identificare il capo incarnato da Draghi in una sorta di irrisolta questione, luogo di pastrocchi e di giri di valzer che ci riportano al punto di partenza ovvero in una crisi che non fa scorgere opportunità, che ci rinchiude in una sorta di servile accondiscendenza ad una multinazionale, la #Pfizer, che attraverso il vaccino e la sua inoculazione rinvia ad un immaginario che ci propina astrattamente una dimensione del tutto teorica e opinabile di salute raggiunta e sicurezze improbabili, essenzialmente liquide.

In tutto questo percepito disagio vi è racchiusa quella «letteratura della crisi», che, anziché farci capire il senso e le ragioni di questo passaggio pandemico epocale, lo rende misterico ed incompreso. E allora dobbiamo ricorrere alla interpretazione, fornita da Carl Schmitt, in cui si mischia il bisogno di decisione di contro a un’autorità incerta e paurosa, o meglio paurosa e quindi incerta ed un nugolo di soggetti che rimangono assorbiti da quell’atmosfera di tensione senza fine.

Così nelle pagine in cui Melville ne fa un quadro complessivo si evidenzia una sorta di immagine che immortala lo stato dell’arte che ritrae il luogo e le sue dinamiche psicologiche: «Ogni qualvolta si sale in altomare sopra una nave grande e popolata, specialmente se straniera e d’equipaggio esotico come lascari o filippini, l’impressione che se ne riceve differisce bizzarramente da quella prodotta al primo entrare in una casa sconosciuta e abitata da ignoti in un paese ignoto.

La casa come la nave – l’una per mezzo delle pareti e delle persiane, l’altra delle murate alte come bastioni – nascondono alla vista i loro interni fino all’ultimo; ma nel caso della nave c’è questo in più, che il vivente spettacolo da essa contenuto ha nella sua repentina e integrale apparizione, in contrasto col vuoto oceano che la circonda, l’effetto quasi di una scena di miraggio. La nave sembra irreale; e i costumi, i gesti, i visi inaspettati, un chimerico quadro emerso allora dall’abisso, che ringhiottirà subito ciò che ha dato fuori»

Ebbene Schmitt coglie nel racconto di Melville il bisogno, ovvero la necessità, di decisioni autorevoli che laddove non arrivano determinano lo sconquasso in un clima diffuso che vive quel senso di apprensione e di disagio che è funzionale allo svolgersi degli «enigmi» senza soluzione, «portenti» senza energia sostanziale se non quella degli oppressi, «sospetti» che inducono alla sfiducia, e ancora, «fastidio» per come viene trattata la paura pervasiva e l’«inquietudine» senza requie.

Insomma in tempi come i nostri si pretende un supplemento di risolutezza per uscire da una bonaccia che non consegna alcuna concreta speranza. Questa metafora ci indica una strada a cui Draghi dovrebbe dare una risposta per colmare un vuoto e per non incarnare Benito Cereno.

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