Sono sette mesi che siamo entrati nel reality Il Grande Covid. E ci siamo talmente dentro che abbiamo rinunciato alla democrazia. Una bella pietra sopra al ragionamento, al produttivo scontro tra idee, alla nobile arte del confronto. Alla gogna qualsiasi tentativo di autonomia di pensiero tra editti di “chiusura totale”, ordinanze contraddittorie e imposizione di regole del gioco cinesizzanti sulla cresta del terrore pandemico.
Dalla decrescita felice alla detenzione felice: il passaggio sta avvenendo con una rapidità sconcertante, nell’aspettativa febbrile del promozionato recovery fund da parte di un personale politico e tecnico scadente, fortemente concentrato sulla propria sopravvivenza e messa in sicurezza di stipendi, clientele, cadreghe. Non serve aver frequentato i corsi di Cassandra per immaginare, visti i tempi governati dalla scimmia dell’incertezza, uno scenario non molto lontano in cui il reddito di cittadinanza, mutevole come il virus, si trasformerà in reddito d’emergenza a tempo indeterminato, senza più guardare al lavoro come partecipazione alla crescita e primato di dignità, ma come elemento opzionale. Scelta non prioritaria, quasi sconsigliata.
Stonati dal loop “Dai il sussidio, togli il sussidio”, coscienti che il mattino ha la mascherina in bocca, nella casa circondariale del Grande Covid si segnala la modifica sostanziale del primo sacrale articolo della Costituzione italiana nella versione assistenziale e drammatica d’oggi: “L’Italia è una Repubblica postdemocratica fondata sull’attesa”. Dove sono i paladini della suprema carta dei valori? I chiassosi marciaioli e i firmatari automatici di manifesti?
Se si escludono alcuni costituzionalisti e opinionisti che, anche nel recente referendum sul taglio dei parlamentari, hanno conservato riserve di lucidità, c’è l’Italia del mainstream mediatico che nel reality sembra stare bene, oscillante tra il confessionale e la doccia, complice e attendista, allineata e protetta, così lontana da quella reale che ogni giorno subisce la guerra nelle tasche, ingaggia battaglie perse con una scuola che ha eletto la rotella del banco come talismano salvifico, subisce angherie e anomalie dal sistema giudiziario, si trova a fronteggiare a mani nude uno spaesamento collettivo che smonta le relazioni, uccide il dialogo, alimenta la diffidenza.
Siamo cavie, questo vuole la Nuova Costituzione del Grande Covid. Questo è il programma non solo in ambito sanitario ma soprattutto nel campo sociale, con sperimentazioni che mirano ad aggiornare la “raccolta dati” sulla nostra resistenza alla reclusione e alla limitazione di movimento, sulla predisposizione che abbiamo a lavorare da remoto, sulla misurazione della nostra carica virale di libertà. Dirlo non significa ispirarsi alla filosofia del negazionismo ma appare evidente come il virus con la corona stia accelerando il disegno globale di trasformarci sempre di più in un prodotto, di perfezionare il controllo sull’anima, di promuovere relazioni smart, acquisti a distanza e videochiamate al cervello, giocando sporco con il pericolo di contagio.
Insomma ci vogliono meno uomini e più topi, meno liberi e più hikikomori. Rinchiusi in stanza, globali in poltrona. Porcospini col mouse. Così facendo hanno eliminato l’agorà, centro nevralgico della civiltà occidentale, piazza democratica, politica, sociale, commerciale dove incontrarsi, confrontarsi, guardarsi negli occhi, agire, programmare rivoluzioni d’idee e possibili domani.
Agorà calpestata e sostituita con un planetario Tagadà, luna park di giostre social in cui si costruiscono pacchi politici, si manipolano notizie, si confezionano bugie e violenze in una simulazione di libertà che spinge gli utenti a scegliere senza un vero processo di conoscenza, a sparare emoticon con la sistematica uccisione della parola, a scontrarsi su falsi obiettivi, a isolarsi dal mondo delle relazioni autentiche.
Nell’ultima assemblea generale di Confindustria lo slogan è stato “Il coraggio del futuro”, lanciato dal presidente Carlo Bonomi come indicazione e stimolo al premier Conte, più presentatore che premier, ormai una sorta di Alfonso Signorini del reality in cui siamo finiti. Senza inoltrarci nei tanti provvedimenti che andrebbero presi per ridisegnare l’Italia, l’unico vero coraggio di cui abbiamo bisogno, ora e subito, è quello di combattere per la riapertura dell’agorà, per il ritorno alla democrazia vicina e non distante, relazionale e non simulata. Passionale e non robotizzata.
Non c’è altro modo per difendere la libertà anche in tempi di restrizioni e ospedalizzazione del pensiero; non c’è altra maniera per contrastare quel “capitalismo di sorveglianza” che adora schedarci e anestetizzarci nel nome della paura e della divinità assolutista dell’algoritmo. Senza agorà finiremo come quel tale che, per dirla alla Flaiano, ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti nel passato. Senza agorà moriamo in vita e respiriamo sudditanza. Diamoci una mossa, altrimenti siamo complici di un domani da criceti nella ruota.
Max De Francesco
Blog: www.maxdefrancesco.it
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