L’imputato Zingaretti. Con la disfatta alle regionali nel Pd sono pronti al processo al segretario

Nicola Zingaretti

Nicola Zingaretti a fine mese potrebbe finire sotto processo. Politicamente, s’intende. Sarà un altro leader di partito, Matteo Salvini, a doversi difendere in un tribunale vero e proprio da accuse di reati pesanti come sequestro di persone. Il processo che invece potrebbe vedere protagonista Zingaretti è tutto politico, allestito dai maggiorenti del Partito Democratico che potrebbero prendere a pretesto il risultato delle elezioni regionali.

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Non una novità. Gli eredi di quello che fu il Partico Comunista sono abituati a regolare le successioni attraverso tribunali e processi sommari. Facendo fuori, sempre politicamente, i propri leader grazie ad abili spostamenti ed alleanze.

E’ da giorni, appunto, che si vedono ammiccamenti, dichiarazioni e profondi silenzi (questi spesso più eloquenti). Che si favoleggia di un ritorno di Matteo Renzi nel Pd. Di movimenti delle truppe renziane, ancora presenti nel Pd, che non aspetterebbero altro che la caduta di Zingaretti per eleggere Bonaccini nuovo segretario ed aprire le porte al loro condottiero. Il quale consapevole che la sua creatura, Italia Viva, è fallita non vede altra strada che il ritorno alla casa madre.

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E che dire di Giorgio Gori che ha ufficialmente chiesto un cambio di leadership attraverso la convocazione di un congresso. Senza sottovalutare anche i continui cannoneggiamento dell’ex Pd, Carlo Calenda, che con la sua Azione può sorridere con sondaggi più confortanti ma che potrebbe in un cambio di stagione al vertice del Pd far il suo trionfale ritorno.

Zingaretti: «Cresce uno spirito polemico contro il Pd»

Congetture, forse anche fantapolitica, ma è evidente che da settimane Zingaretti, o meglio la sua linea politica, è sotto assedio. Lo ha capito anche lui che non a caso ieri ha deciso di passare all’attacco in una lunga lettera a La Repubblica, nella quale ha denunciato il crescere di «uno spirito polemico contro il Pd e contro la scelta del Sì», che nasconde «un’insofferenza verso il governo, la maggioranza e il lavoro svolto».

Da qui la sfida lanciata da Zingaretti: «Sarebbe meglio che chi lo pensa avesse il coraggio di dirlo, assumendosi la responsabilità delle successive conseguenze». Insomma, se si vuole indebolire il Pd e il governo «si chieda apertamente la fine di questa esperienza. Si dica che si preferiscono le elezioni politiche con questa legge elettorale o il ritorno ad ipotesi di un governo di tutti che inevitabilmente umilierebbero ancora una volta la politica». In poche parole per Zingaretti «non è più possibile sopportare l’ipocrisia di chi agisce per destabilizzare il quadro politico attuale».

Parole dure come pietre ma che danno il senso della tensione che si respira ai piani alti del Nazareno e con quale stato d’animo si stiano attendendo queste regionali. Ad essere sinceri questo clima Zingaretti non da poche settimana ma probabilmente da quando è stato formato il governo, cioè un anno. E dire che Zingaretti il governo non lo avrebbe nemmeno fatto. Nelle concitate settimane dell’agosto 2019, quando Salvini parlava di pieni poteri e Conte lo sfidava in Senato ad affrontare la crisi alla luce del sole, il presidente della Regione Lazio avrebbe voluto prendere la via delle urne.

Già si fregava le mani di lasciare una sempre più claudicante presidenza regionale per un comodo scranno parlamentare. Ma soprattutto di accomodarsi tra una compagine parlamentare affidabile e a prova di imboscate. Un piano perfetto. Certo, probabilmente sarebbe stato all’opposizione ma proprio da lì avrebbe potuto iniziare la traversata per ritornare maggioranza tra qualche anno.

Peccato che ad ostacolare i suoi piani ci si mise Matteo Renzi che dal ritorno alle urne ne avrebbe pagato il prezzo più pesante, visto che proprio i parlamentari più vicini a lui sarebbero stati sacrificati sull’altare nella nuova segreteria. E allora la mossa del cavallo (guarda caso il titolo del suo ultimo libro) e l’alleanza con il M5S per fermare Salvini, ma in realtà il ritorno precipitoso alle urne.

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Nasce, quindi, il governo Conte II e inizia una lunga traversata per Zingaretti costellate più di amari bocconi che di soddisfazioni. Una scissione, quella di Italia Viva di Renzi, che forse già covava nel mentre era in gestazione il nuovo governo. E poi proprio il governo nel quale il Pd con il tempo ha mostrato di saper incidere sempre di meno. A partire dal lockdown alle delicate fasi successive, dove le pressanti richieste di cambiare passo sono cadute nel vuoto.

Uno su tutti gli Stati Generali il cui annuncio da parte di Conte fece letteralmente infuriare Dario Franceschini e che alla fine si è risolto in quello che temeva il Pd: un evento inutile a beneficio soltanto dell’ego del premier Conte. E fino ad arrivare alle ultime settimane con tre temi in testa all’agenda delle cose da portare a casa e puntualmente sfumati.

La riforma dei decreti Sicurezza rinviata a dopo le elezioni regionali

La riforma dei decreti sicurezza, posta nel patto di governo per chiudere definitivamente la stagione politica di Salvini dei ‘porti aperti’ e della lotta ai trafficanti di esseri umani. Segnale che appunto il nuovo governo avrebbe avuto una diversa impronta, più di sinistra e meno sovranista. Invece, niente da fare. Riforma rimandata a dopo le elezioni regionali, perché dinanzi all’ennesima invasione delle coste siciliane toccare quei decreti avrebbe significato regalare a Salvini un’occasione unica per gonfiare le vele dei suoi consensi.

Nessun alleanza tra Pd e il M5S per questa tornata elettorale

E che dire delle alleanze per le regionali con il M5S. Zingaretti su questo si era speso tanto, cercando in tutti i modi di stringere accordi che dopo il pronunciamento di Rousseau sembravano ad un passo. E invece una bella porta in faccia. Ognuno andrà per conto suo, mettendo così in pericolo ben tre Regioni, dalla Toscana alle Marche fino alla Puglia, peraltro tutte a guida Pd, dove il sostegno del M5S potrebbe fare molto comodo per evitare sconfitte che sembrano ormai scontate.

E infine la riforma della legge elettorale. Anche questa nel patto di governo, e passaggio obbligato per il Pd per dare il via libera alla riforma del taglio dei parlamentari. Ma se da un lato Zingaretti ha dato l’ok del suo gruppo alla Camera per dire sì alla riforma, dopo ben tre no, il M5S non ha mai dimostrato disponibilità ad accelerare sulla legge elettorale, arrivando a poche settimane dal referendum senza aver concluso nulla: né l’approvazione in Aula alla Camera della riforma; né l’approvazione in Commissione del testo della riforma; e nemmeno l’approvazione del testo base in Commissione.

Martedì prossimo in Commissione alla Camera via libera al testo base della riforma elettorale

Anzi no, almeno questo ultimo punto è stato ottenuto e proprio in extremis ieri. Ma se ne parlerà martedì prossimo. Una magrissima consolazione, che ora il Zingaretti e il Pd vogliono vendere come un successo incredibile, ma che è la classica vittoria di Pirro visto che già Renzi per il voto in Aula si è sfilato. E c’è da chiedersi che senso abbia un voto su un testo base se poi mancano in numeri per approvarlo in maniera definitiva?

E ora il voto delle regionali. Quello darà la misura della tenuta di Zingaretti. Se il Centrodestra dovesse espugnare dopo la Puglia e le Marche anche la Toscana difficilmente Zingaretti potrebbe continuare a rimanere indisturbato al vertice del Nazareno. E allora il processo sarebbe inevitabile.

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