Un viaggio nel culto delle anime pezzentelle e nei riti popolari
A Napoli, in via Fontanelle nel quartiere Sanità, si trova il Cimitero delle Fontanelle, antico cimitero così chiamato per la presenza in tempi remoti di molte fonti d’acqua. È qui che, tra il XVII e il XIX secolo, furono raccolti circa 40.000 resti di persone delle epidemie e delle carestie, dove nacque l’usanza delle «anime pezzentelle», un rito che ha affascinato antropologi, scrittori e viaggiatori di tutto il mondo. Sotto la collina della Sanità si apre un dedalo di gallerie che in origine erano cave di tufo, sfruttate per secoli come «serbatoio» di pietra da costruzione per la città.
È soltanto a partire dalla metà del Seicento, durante la terribile peste del 1656, che questi ambienti sotterranei iniziarono ad accogliere i resti delle vittime, diventando progressivamente un enorme ossario collettivo. Nei decenni successivi, alle vittime delle epidemie si aggiunsero i corpi di chi non poteva permettersi una sepoltura in chiesa e, più tardi, le ossa recuperate dagli ipogei svuotati dopo le riforme introdotte dai francesi.

La funzione delle cave come deposito funerario non fu sempre ufficiale: diverse cronache raccontano che, tra Settecento e Ottocento, non di rado i becchini trasportassero di nascosto i defunti nelle gallerie, quando gli spazi sacri cittadini non bastavano più. Successivamente però un’alluvione improvvisa mise un giorno allo scoperto quelle ossa, riversandole persino lungo le strade e fu allora che l’area venne recintata e sistemata come ossario stabile, con un altare e un’organizzazione più ordinata.
Oggi si contano circa quarantamila resti, ma si ritiene che sotto il pavimento ci siano ancora diversi strati, disposti con ordine dai becchini di un tempo. Nel 1872 il Comune decise di aprire l’area ai visitatori e affidò a un sacerdote, Gaetano Barbati, la sistemazione: i crani da un lato, le tibie da un altro, e le prime cappelle provvisorie in attesa di un tempio che non fu mai realizzato.
Il culto delle «anime pezzentelle»
Nel Novecento, il culto delle cosiddette «anime pezzentelle», le adozioni popolari dei teschi, divenne sempre più diffuso, fino a suscitare perplessità nelle autorità ecclesiastiche. Nel 1969 un decreto ecclesiastico mise al bando quelle pratiche, consentendo solo una celebrazione mensile e la processione dei defunti il 2 novembre ma da lì in avanti, il luogo iniziò a scivolare nell’oblio.
Dopo una prima riapertura parziale nei primi anni Duemila e un’occupazione simbolica dei residenti nel 2010, il Cimitero delle Fontanelle è tornato accessibile per qualche anno, fino alla nuova chiusura del 2019. Da allora si discute di una gestione affidata a cooperative sociali, con l’introduzione di un ticket. Nel 2023 era stata annunciata una riapertura nel 2024 sotto la gestione della cooperativa La Paranza, ma a oggi, i cancelli restano chiusi.
Il culto delle anime pezzentelle ha trasformato mucchi di ossa anonime in interlocutori privilegiati dell’aldilà, infatti ciò che per la Chiesa erano semplici «spoglie senza nome», per i napoletani diventavano spiriti dimenticati, poveri come i vivi che li invocavano, ma proprio per questo capaci di instaurare un patto di reciproco soccorso.
Il rito
Il rito era semplice e carico di simbolismo; un devoto sceglieva un cranio, spesso indicato in sogno, lo puliva, lo lucidava, lo poggiava su un fazzoletto ricamato, adornandolo di lumini, fiori e persino un rosario e in quel momento, quel teschio entrava a far parte della famiglia, destinatario di preghiere e confidenze, in attesa che in sogno restituisse un segno: un numero per il lotto, una grazia, o almeno un sollievo per le anime in purgatorio, ciò che in dialetto si invocava come ’o refrisco.
Il rapporto, però, non era statico, infatti se l’anima «manteneva la parola», la si onorava con un cuscino ricamato o con una teca; se invece i favori non arrivavano, veniva abbandonata e sostituita con un altro cranio. Alcuni teschi acquisirono fama e soprannomi come quello di donna Concetta, noto come «a capa che suda», sempre lucido di condensa e mentre gli altri crani rimanevano impolverati, il suo appariva brillante, quasi sudato: un fenomeno che la scienza spiega con l’umidità del sottosuolo, ma che i fedeli hanno sempre interpretato come un segno di sofferenza e di grazia.
Toccare quel cranio «bagnato» era considerato un contatto diretto con l’aldilà, un auspicio di benevolenza, e ancora oggi è uno dei più venerati.
La leggenda del Teschio del Capitano

Ancora più celebre è la leggenda del Teschio del Capitano, al centro di racconti che uniscono miracolo e maledizione. Secondo una versione, un giovane promesso sposo, infastidito dalla devozione della fidanzata verso quel cranio, un giorno lo colpì con un bastone nell’orbita, lasciandola segnata di nero. Poco dopo, al banchetto di nozze, comparve tra gli invitati un misterioso uomo in divisa che, smascherandosi, rivelò di essere proprio il Capitano: lo scheletro si mostrò e gli sposi caddero morti all’istante.
Altri racconti parlano di uomini dissoluti che avevano sfidato il teschio, ricevendone in cambio maledizioni letali. In tutte le versioni, però, il Capitano resta una figura ambigua: temuto e venerato insieme, capace di concedere grazie ma anche di punire con durezza chi lo irrideva.
Il sogno restava il canale principale poiché era lì che le anime parlavano, raccontavano la loro storia, chiedevano suffragi o offrivano fortuna. Così, nel corso dei secoli, quei teschi divennero una moltitudine di personaggi popolari: giovani morti in guerra, ragazze scomparse alla vigilia delle nozze, uomini caduti in circostanze drammatiche. Figure che, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra, rappresentarono per la città un’àncora di speranza.
La struttura del cimitero delle Fontanelle e i resti celebri
Nel cimitero ci sono tre gallerie imponenti, alte fino a quindici metri e lunghe un centinaio che si aprono come navate di una cattedrale sotterranea. Qui lo spazio, nato come cava di pietra, è diventato nei secoli un teatro collettivo dove la morte non è stata nascosta ma quasi celebrata. Ogni navata porta un nome e una storia: C’è la navata dei preti, che custodisce i resti provenienti dalle chiese e dalle congreghe cittadine; la navata degli appestati raccoglie le vittime delle grandi epidemie, soprattutto la peste del 1656 che decimò Napoli e la navata dei pezzentelli che accoglie invece i poveri, i dimenticati, coloro che non potevano permettersi una sepoltura.
L’ingresso, accanto alla piccola chiesa del Carmine costruita a fine Ottocento, introduce a un mondo di cataste ordinate di teschi e ossa lunghe, allineate con cura grazie all’opera del canonico Gaetano Barbati, che guidò i fedeli nella sistemazione del sito. Tra le ossa anonime emergono storie che hanno alimentato leggende e devozioni. Si dice che qui siano passati anche i resti di Giacomo Leopardi, morto a Napoli nel 1837 durante l’epidemia di colera, prima di essere traslati altrove. In un’ala laterale si trovano le bare di Filippo Carafa e di sua moglie, donna Margherita: il suo cranio, conservato con la bocca spalancata, ha dato vita alla diceria che fosse morta soffocata da uno gnocco, dettaglio che mescola tragedia e ironia popolare.
Il percorso è costellato di simboli forti: il Monacone, statua decapitata di San Vincenzo Ferrer con un teschio appoggiato al posto della testa; il Tribunale, con tre croci su una base di crani, che secondo la tradizione sarebbe stato luogo di giuramenti di camorra; il Calvario, dove l’accumulo dei teschi richiama il Golgota. E ancora, gli scolatoi, dove i corpi venivano lasciati a colare dei propri liquidi, memoria tangibile delle pratiche funerarie più crude. In queste gallerie sotterranee, la città ha riversato le proprie paure, le proprie miserie e il bisogno costante di dialogare con i morti affinché questi ultimi rendessero più lieve il passaggio dei vivi sulla terra.