Una satira feroce sui rapporti ambigui tra Stato e criminalità
Il carteggio sfiorato tra Raffaele Cutolo e Fabrizio De André, nato all’indomani dell’uscita di «Don Raffaè», è uno dei capitoli più curiosi e meno raccontati della storia della canzone italiana. Un episodio che rivela molto più di un semplice scambio di lettere: svela il modo in cui l’arte riesce a toccare il potere, anche quando lo fa per denunciarlo. Per questo vale la pena tornare dentro quel brano, analizzarlo parola per parola, per capire come sia potuto accadere che un boss della NCO si sentisse descritto da un cantautore che non aveva mai incontrato.
La canzone, pubblicata nel 1990 nell’album «Le nuvole», è una satira feroce e lucidissima sui rapporti ambigui tra Stato e criminalità organizzata. A cantare la storia non è un narratore esterno, ma un brigadiere che, dal carcere di Poggioreale, si rivolge con confidenza a un boss detenuto. Un ribaltamento di ruoli che è la chiave di tutta la composizione: chi dovrebbe difendere la legalità si ritrova a chiedere favori proprio a chi l’ha violata. Il brigadiere non è un corrotto nel senso tradizionale del termine, è piuttosto una figura stanca, impotente e ormai rassegnata a un sistema in cui il potere sembra non appartenere più allo Stato. È questo ritratto, misto di ironia e tragedia, che colpì Raffaele Cutolo.
Un uomo che, pur confinato in una cella, continua a esercitare autorità negativa
Nel testo, De André costruisce un Don Raffaè che non è una caricatura ma una figura simbolica: un uomo che, pur confinato in una cella, continua a esercitare in modo negativo autorità, influenza e carisma criminale. Il boss parla poco nella canzone, e non direttamente: la sua voce arriva attraverso il brigadiere che lo venera, lo teme e allo stesso tempo gli chiede una via d’uscita dal proprio fallimento personale. È in questa inversione dei ruoli e nei riferimenti presenti nel brano al «Maxi Processo» e al «Cappotto cammello» che molti hanno riconosciuto l’ombra lunghissima di Cutolo.
Proprio Cutolo, dal carcere di Novara, dopo l’uscita della canzone, scrisse davvero a De André. Gli mandò una lettera di ringraziamento accompagnata da un libro di poesie da lui composte. Secondo alcune testimonianze, gli chiese, quasi stupito, come fosse riuscito a cogliere così bene aspetti della sua personalità e delle dinamiche interne alla vita carceraria senza averlo mai incontrato. La risposta di De André, gentile ma distante, fu un ringraziamento e nulla più: evitò accuratamente di alimentare un rapporto che avrebbe potuto essere travisato. Dichiarò anni dopo che non voleva correre il rischio di trasformare la sua critica sociale in una sorta di celebrazione del potere criminale.
Eppure, il fatto che Cutolo abbia riconosciuto se stesso dentro «Don Raffaè» non è casuale. La canzone pesca nell’immaginario reale del potere camorristico degli anni ’80 e ’90: un potere che spesso superava i confini del carcere, che dialogava con la politica, che influenzava appalti, voti e interi territori. Quando il brigadiere dice «’o Stato che fa?» non parla di un caso isolato: riprende la percezione diffusa di quegli anni, quando lo Stato sembrava non riuscire a contrastare l’espansione delle mafie e finiva per tollerare zone grigie che compromettevano la credibilità delle istituzioni.
Una delle satire più potenti del Novecento italiano
La scelta di De André di usare un finto dialetto napoletano – volutamente sbilenco, volutamente non autentico – è un altro elemento chiave. È un dialetto filtrato da un Nord che osserva il Sud e tenta di imitarne i suoni, un artificio che sottolinea la natura caricaturale e teatrale del racconto. Un modo per mettere in scena un’Italia che fatica a parlarsi, in cui i cliché si mescolano con la realtà, e nella quale l’ironia diventa l’unica arma per denunciare la tragedia.
L’intero testo è un gioco di specchi. Da una parte c’è il brigadiere, vittima di un sistema che lo schiaccia; dall’altra Don Raffaè, simbolo di un potere criminale che sopravvive a tutto; in mezzo c’è lo Stato, rappresentato come un’entità lontana, inerte, incapace di reagire. È la resa della quotidianità: anche l’atto più banale diventa simbolo di una dipendenza dal potere criminale.
Capire perché Cutolo abbia scritto a De André significa dunque comprendere la forza di quel testo. «Don Raffaè» non è solo una canzone ispirata a un boss, è un ritratto disturbante di un’Italia in cui la criminalità organizzata occupa spazi lasciati vuoti dalle istituzioni. È una denuncia, non un’epica; una satira che nasce dalla realtà, non un omaggio. E proprio per questo ha attirato l’attenzione del suo protagonista involontario.
A distanza di oltre trent’anni, il breve scambio epistolare tra il cantautore e il boss continua a raccontare la stessa verità: quando la società cede terreno, il potere criminale non solo avanza, ma si riconosce persino nell’arte che lo critica. È questo il paradosso che rende «Don Raffaè» una delle satire più potenti del Novecento italiano.




