Ex Ilva, la cassa integrazione minaccia 4mila lavoratori. Urso: «Faremo la nostra parte»

Decisioni dal 15 settembre, in attesa di offerte e piani industriali

L’ex Ilva di Taranto attende i nuovi investitori a impianti quasi fermi, mentre sui lavoratori incombe la minaccia di un aumento della cassa integrazione. Il gruppo Acciaierie d’Italia, in amministrazione straordinaria, ha presentato richiesta di ammortizzatori sociali per altri mille dipendenti, dopo l’incidente e il sequestro dell’altoforno 1, avvenuti a maggio.

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L’incontro al ministero del Lavoro sulla richiesta è slittato più volte e, secondo fonti sindacali, potrebbe ora essere fissato per il 28 agosto alle 11. Al momento, però, non è ancora arrivata la convocazione ufficiale. La domanda complessiva dell’azienda riguarda la cig fino a 4.050 lavoratori, dei quali 3.500 nello stabilimento di Taranto, su un totale di poco meno di 9.800 addetti complassivi del gruppo.

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Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, continua a rassicurare: «faremo la nostra parte per tutelare i lavoratori di Taranto». Ma ai sindacati non bastano le promesse. La segretaria confederale della Uil Vera Buonomo chiede «risposte concrete» per chi da decenni continua a presidiare la fabbrica nonostante le promesse disattese. Il giorno dopo la possibile riunione sulla cig, il 29 agosto, i sindacati incontreranno i gruppi parlamentari nella sede di Fim, Fiom e Uilm di Roma per discutere lo stato della vertenza. Hanno aderito quasi tutte le forze politiche, di maggioranza e opposizione. L’ora della verità è, comunque, rimandata a settembre.

L’intesa preliminare del 12 agosto tra governo ed enti territoriali sulla decarbonizzazione di Taranto ha spostato le decisioni principali a dopo il 15 settembre, quando saranno state presentate le offerte vincolati e i piani industriali dei possibili acquirenti. A quel punto, i tempi saranno serrati. L’obiettivo indicato da Urso è consegnare gli impianti al nuovo investitore entro il primo trimestre 2026.

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Il piano per l’ex Ilva

Il piano del ministero prevede, per allora, la riattivazione di tre altiforni a carbone, compreso quello sotto sequestro — dopo lavori di manutenzione e risanamento — per raggiungere una produzione annua di 6 milioni di tonnellate di acciaio, ritenuta il minimo per la sostenibilità economica. Al momento, con solo un altoforno attivo, il rischio è di scendere sotto il milione e mezzo di tonnellate. In una prima fase la produzione sarà riavviata con la tecnologia tradizionale, per poi passare gradualmente a tre forni elettrici.

Nel piano del Mimit, il primo entrerebbe in funzione entro la fine del 2029 e la completa decarbonizzazione richiederebbe 7-8 anni. Lo Stato fornirà il preridotto necessario per i forni elettrici, attraverso la società Dri d’Italia, finanziata con un miliardo di euro dai fondi di coesione. Il nuovo acquirente potrà contare inoltre su 750 milioni di euro per contratti di sviluppo già stanziati ai tempi di ArcelorMittal, e non ancora utilizzati, e sono allo studio aiuti per l’energia. Sarebbero ancora in gara, secondo Urso, i partecipanti al precedente bando: il gruppo indiano Jindal, il fondo Bedrock e gli azeri di Baku Steel. Questi ultimi erano arrivati a trattare in esclusiva con un progetto incentrato sulla nave rigassificatrice a cui si oppone, però, il sindaco di Taranto.

Legambiente chiede, piuttosto, l’avvio immediato di una transizione verso l’elettrico alimentato da rinnovabili e la dismissione delle centrali tradizionali. Preme, inoltre, perché l’azienda invii all’Iss l’aggiornamento della Valutazione di impatto sanitario, con i dati che finora non ha fornito

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