Il patto siglato in Scozia non è al riparo dalle turbolenze
I venti da oltreoceano tornano a spirare sull’Europa, spinti ancora una volta da Donald Trump, che agita lo spettro di dazi al 35% se il continente non terrà fede ai 600 miliardi di investimenti promessi. «Ce li hanno garantiti per farci quello che vogliamo. È l’unica ragione per cui ho abbassato le tariffe al 15%», ha avvertito il tycoon, facendo sobbalzare la tregua e riaccendendo la tensione anche sui microchip e sui farmaci destinatari a stretto giro – «già la prossima settimana» – di un’aliquota fino al 250%.
Bruxelles, ufficialmente, non si scompone: il tetto del 15% continua a essere lo scudo presentato dalla Commissione Ue come una «polizza assicurativa» valida per tutti i settori, compresi medicinali e semiconduttori. Ma quella soglia è anche la linea rossa tracciata dalla presidente Ursula von der Leyen e se Washington dovesse forzare i margini, è l’avvertimento, l’Ue «ha i mezzi per reagire». Contromisure che da ora sono ufficialmente congelate per sei mesi con una decisione che dovrà essere formalizzata dai 27 entro due settimane.
Dopo giorni sull’ottovolante tra interpretazioni divergenti e scambi continui, il primo testo congiunto tra Bruxelles e Washington è ormai «in fase avanzata», sul tavolo dei negoziatori Usa Howard Lutnick e Jamieson Greer, con cui il commissario Maros Sefcovic mantiene un canale «costruttivo». Anche se resta da chiarire chi sarà, all’interno dell’amministrazione Trump, a mettere il timbro sui punti concordati.
Investimenti e nuove esenzioni al 15%
Il capitolo investimenti – per un totale, compresi quelli energetici, di ben oltre mille miliardi di euro – è incandescente, con l’esecutivo Ue consapevole di non poter garantire impegni che restano, per loro natura, nelle mani del settore privato. Pur priva di valore vincolante e ancora senza una data ufficiale, la dichiarazione Ue-Usa definirà comunque i primi confini mobili della nuova mappa transatlantica, tracciando anche il perimetro delle iniziali esenzioni alla soglia del 15%.
Settori in prima linea: automotive, aerei e prodotti strategici
Tra i primi a intravedere schiarite sarà l’automotive: per concretizzare l’impegno del tycoon di ridurre i dazi dal 27,5 al 15% servirà un nuovo ordine esecutivo – distinto da quello firmato il 31 luglio in vigore dal 7 agosto – a cui l’Ue guarda comunque con fiducia, certa di una svolta in arrivo «molto presto». Bruxelles si ribadisce poi «determinata a lottare su ogni singolo prodotto» ritenuto strategico, settore per settore, per strappare dazi zero o almeno il trattamento della nazione più favorita, pari al 4,8%. Gli aerei e i loro componenti saranno i primi a beneficiarne e troveranno già il loro posto nel testo congiunto. Per tutto il resto – dal vino ai liquori, fino ai dispositivi medici e ai prodotti chimici – servirà invece pazienza in un negoziato che richiederà «probabilmente mesi» per definire l’accordo finale.
Le tensioni tra gli Stati membri
Una partita in cui l’Italia intende far valere le sue priorità, a partire dall’agroalimentare. «Non pretendiamo di aver chiuso tutte le partite, ma abbiamo costruito una base solida. Serviva mettersi in una posizione di relativa forza e stabilità», è tornato a evidenziare un alto funzionario Ue difendendo un’intesa vista come «la migliore possibile nelle attuali condizioni». Niente «celebrazioni» ma «sollievo» rafforzato dallo sguardo rivolto oltre i confini europei dove, si puntualizza, «c’è chi sta peggio».
Come nel caso della Svizzera, che ha inviato in fretta e furia presidente e ministro dell’Economia a Washington per scongiurare la scure shock del 39% e teme già nuove ricadute sulle big pharma. Oppure in quello dell’India, nel mirino per le sue ambiguità energetiche con Mosca e a rischio di una punizione superiore al 25%. Ma anche le tensioni interne non sono appianate.
Bruxelles assicura che il processo negoziale ha coinvolto costantemente i 27, sottolineando come l’escalation fosse sostenuta soltanto da una piccola minoranza. Eppure, le critiche del ministro tedesco Lars Klingbeil, pronunciate proprio dagli Stati Uniti, hanno colpito nel vivo l’esecutivo di Ursula von der Leyen. Anche Berlino, è stata la replica secca, ha sostenuto la strada negoziale, l’unica vista come in grado di «garantire stabilità e difendere l’interesse comune europeo».