È evidente che il nostro sistema non crede più nei propri ragazzi
Negli ultimi dieci anni, la Nazionale italiana di calcio ha vissuto un’altalena di emozioni: dalla gloria di Euro 2020 al buio delle mancate qualificazioni ai Mondiali del 2018 e del 2022, fino alla preoccupante sconfitta contro la Norvegia nelle qualificazioni per il Mondiale 2026. Una débâcle, quella di Oslo (3-0), che suona come un campanello d’allarme, l’ennesimo. E il 2006 sembra un’altra era geologica.
Non si tratta solo di risultati deludenti: il problema è più profondo, strutturale, e affonda le radici nella crisi del settore giovanile italiano. Dove sono finiti i Totti, i Del Piero, i Buffon, i Nesta, i De Rossi? Oggi la Nazionale fatica a trovare ricambi all’altezza, e i pochi talenti emergenti spesso vengono bruciati troppo in fretta, o relegati in panchina nei propri club.
Il vivaio che non c’è più
La Serie A, un tempo fucina di campioni azzurri, oggi è colonizzata da giocatori stranieri. Basta guardare le formazioni titolari delle squadre di vertice: in alcune giornate, i giocatori italiani sono l’eccezione, non la regola. Le statistiche parlano chiaro: nella stagione 2024-2025, solo un terzo dei calciatori impiegati in Serie A è italiano. In Premier League, che pure attrae campioni da tutto il mondo, la percentuale di inglesi resta superiore al 40%.
È evidente che il sistema italiano non crede più nei propri giovani. Le società preferiscono acquistare promesse straniere, talvolta a basso costo, piuttosto che investire in strutture, tecnici, scouting locale e formazione. Eppure, senza un vivaio forte, non si costruisce una Nazionale competitiva e tantomeno uno «Stile italiano», capace di competere e di aggiungere quel tocco di genio di cui necessita la svolta. Lo sanno bene Francia, Germania, Inghilterra e Spagna, che da anni raccolgono i frutti di politiche federali lungimiranti.
Serve un cambio di rotta
Forse è giunto il momento di ripensare il modello. Introdurre limiti al numero di stranieri nelle rose delle squadre professionistiche? Incentivare fiscalmente chi punta su calciatori cresciuti nei settori giovanili italiani? Obbligare le squadre di Serie A a schierare un minimo di italiani in campo? Sono tutte ipotesi che meritano di essere discusse con coraggio.
Ma oltre alle regole, servono investimenti: nei centri sportivi, nella formazione dei tecnici, nella didattica del gioco. Il calcio italiano deve tornare a credere nel proprio futuro, e il futuro passa dai ragazzi e dai ragazzini, dai vivai locali e delle grandi squadre. Oggi siamo indietro rispetto ai grandi d’Europa, e non possiamo più permetterci di ignorarlo.
La Nazionale è lo specchio del movimento
I risultati negativi della Nazionale non sono una casualità: riflettono lo stato di salute del nostro calcio. Se la Serie A è sempre meno italiana, se i giovani non trovano spazio, se i vivai vengono trascurati, allora non stupiamoci se in campo internazionale fatichiamo. Il trionfo di Wembley nel 2021 è stato un exploit, non la norma.
Lo sport in genere è uno strumento geopolitico di affermazione potentissimo, è emanazione di soft power e di attrattività globale, non è solo intrattenimento. In passato è stato usato da varie potenze in chiave di scontro simbolico, specie durante la guerra fredda ma anche dopo, e tutt’oggi viene utilizzata l’esclusione dagli agoni in chiave sanzionatoria. Lo sport rafforza il senso di appartenenza e coesione interna, diventando uno dei principali veicoli dell’identità nazionale.
La vittoria dell’Italia a Euro 2020, ad esempio, ha rappresentato un momento di unità collettiva in piena pandemia. Lo sport è oggi un campo strategico della geopolitica globale. In grado di unire e dividere, costruire ponti o rafforzare barriere, il suo impatto va ben oltre il risultato sul campo. Per questo, ogni politica nazionale dovrebbe considerarlo non solo un comparto economico o sociale, ma un elemento della strategia internazionale del Paese.