Francesco Schiavone «Sandokan»: a rischio i segreti del clan dei Casalesi

Dall’omicidio di Salvatore Nuvoletta alla sparizione di Antonio Bardellino, agli intrecci con la politica

Si è pentito Francesco Schiavone, uno dei padrini storici del clan dei Casalesi, forse il più noto anche per via di quel soprannome esotico che gli fu affibbiato, «Sandokan», per via della somiglianza con la «Tigre della Malesia» impersonata in tv da Kabir Bedi. Di esotico aveva però ben poco Schiavone, che tra gli anni ‘80 e ‘90 si è imposto sul territorio casertano, in particolare sull’area compresa tra la città di Aversa e il litorale domizio, a suon di sanguinose faide e omicidi di innocenti.

Da 26 anni dietro le sbarre, trascorsi in regime di carcere duro – «il pentimento di Schiavone è vittoria del 41bis» ha commentato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro – Sandokan era rimasto uno degli ultimi irriducibili della camorra casalese, custode di importanti segreti. «La collaborazione di Schiavone è un passo in avanti storico – ha detto l’ex procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho – dagli appalti ai rifiuti sono tanti gli aspetti da approfondire».

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Il carabiniere ucciso

E tra i «segreti» c’è quello relativo ai mandanti dell’omicidio di Salvatore Nuvoletta, carabiniere ucciso nel 1982 perché il clan voleva vendicare la morte nel corso di un conflitto a fuoco proprio con i carabinieri di Mario Schiavone, cugino di Sandokan. Ma soprattutto la presunta morte di Antonio Bardellino, il fondatore del clan che sarebbe stato ucciso in Brasile nel 1988 ma il cui corpo non è mai strato ritrovato, e i tanti intrecci tra camorra e politica che per anni hanno condizionato il casertano.

«Potrebbe svelare la rete di relazioni della camorra con l’ala imprenditoriale e politica che ha permesso la sopravvivenza del gruppo criminale fra i più pericolosi d’Europa» sottolinea non a caso la commissione legalità dell’ordine dei giornalisti della Campania.

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L’ascesa

Schiavone divenne capo del clan proprio dopo la scomparsa di Bardellino e fu mandante, con l’altro boss Francesco Bidognetti «Cicciotto e Mezzanotte», di decine di omicidi nella faida contro i De Falco.

Sandokan – hanno ricostruito le inchieste e le migliaia di pagine del maxi processo Spartacus con cui è stato condannato all’ergastolo – godeva di appoggi politici ad alto livello, condizionava le elezioni e gli appalti pubblici. E rimase forte anche dopo il pentimento, nel 1993, del primo esponente di spicco del clan, suo cugino Carmine Schiavone.

La cattura

La sua latitanza finì nel 1998 proprio a Casal di Principe, nel suo paese, come ogni capoclan che si rispetti. Nel bunker in cui si nascondeva furono ritrovati oltre ai fucili anche diversi dipinti realizzati dallo stesso Schiavone. In cella non ha smesso però di comandare: dal carcere duro ha «benedetto» i suoi figli che prendevano le redini della cosca. Qualcuno degli eredi si è poi pentito, in particolare il figlio primogenito Nicola collabora dal 2018 e il secondo, Walter, dal 2021, mentre sono in cella Emanuele Libero, che uscirà ad agosto prossimo, e Carmine. La moglie di Sandokan, Giuseppina Nappa, non è a Casal di Principe.

Dove invece restano l’altro figlio Ivahnoe, fratelli e cugini; e pare che non tutti abbiano accolto di buon grado la decisione del padrino e che qualche suo congiunto abbia deciso di non andare in una località protetta come proposto da investigatori e inquirenti.

La malattia

Di recente si era sparsa la voce che Sandokan fosse gravemente malato di tumore e che a questo fosse dovuto il trasferimento dal carcere di Parma a quello de L’Aquila, sempre in regime di 41bis, nella struttura dove era stato curato anche l’ex capo di Cosa Nostra Matteo Messina Danaro.

Ma fonti investigative ben informate hanno spiegato che in realtà si è trattato di un espediente: gli accertamenti hanno escluso la malattia ma la voce non è stata smentita per mantenere quanto più riservata possibile la sua scelta e giustificare il trasferimento nel carcere dell’Aquila. Per Renato Natale, sindaco di Casal di Principe nel 1994 quando fu ucciso don Diana, e primo cittadino ancora oggi, con il pentimento di Schiavone potrebbe quasi chiudersi un ciclo, in cui la città ha «riscattato» quel nome che veniva prima identificato con il clan, rilanciandosi nel segno della legalità.

«Dalla collaborazione – sottolinea – ci aspettiamo la verità sugli omicidi irrisolti, sulla questione dei rifiuti interrati e sui legami con la politica locale e soprattutto nazionale». E di cose da dire, su queste questioni, Sandokan ne ha. Sempre che decida di parlare fino in fondo.

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